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Pieve di Cadore: testimonianza toccante di Samuel Artale internato ad Auschwitz-Birkenau

24 Aprile 2016
Feliciana Mariotti
Archivio 2016
Samuel Artale (Foto Feliciana Mariotti - www.ilnotiziariodicortina.com)
Ieri sera, all'Auditorio Cos.mo di Pieve di Cadore, un gruppo ristretto di giovani ha ascoltato la toccante testimonianza di Samuel Artale Von Belskoj Levi, internato ad Auschwitz-Birkenau e sopravvissuto a quella strage. 
Fu l'unico della sua famiglia a salvarsi. Liberato nel 1945 venne affidato a una comunità ebraica, imbarcato su una nave a Marsiglia e ospitato in un orfanotrofio a Miami (Usa).
Ha studiato, è diventato ingegnere meccanico industriale, oggi vive a Padova.
Il 16 agosto 2011 è tornato ad Auschwitz -Birkenau (oggi Oswiecim)...
L'incontro è stato organizzato in collaborazione con la Magnifica Comunità di Pieve di Cadore, l'Associazione  ex Partigiani di Pieve di Cadore e l'associazione Libera. "Qualcuno ha voluto che  rimanesse in vita per raccontarci le atrocità che ha vissuto - ha detto il sindaco Antonia Ciotti di Pieve di Cadore - . E noi proviamo un senso di rispetto per quello che ha passato. È fondamentale che anche i giovani conoscano quanto è capitato". "La sua presenza  è eccezionale oltre che significativa - ha detto il professor Giovanni Monico in rappresentanza dell'Associazione ex Partigiani di Pieve di Cadore  -. Conoscere quella che è stata la più grande tragedia del Novecento ci riempie di tristezza, amarezza e indignazione. Noi abbiamo una responsabilità non solo verso i testimoni e i martiri, ma anche verso coloro che vengono dopo di noi". "Fondamentale è tenere viva la memoria di fatti importanti come questo", ha aggiunto Mario Foppa dell'associazione Libera.
(www.ilnotiziariodicortina.com)
Samuel Artale con in testa il copricapo degli ebrei, la kippah o kippa/kipa (ebraico: כפה), in segno di rispetto, dopo un breve sunto sulla storia del suo popolo, ha iniziato a raccontare la sua vita: "Ho 79 anni, sono nato a Rostock, in Germania, in una famiglia ebreo-prussiana e vivo in Italia da circa 40 anni". Come tutti gli stranieri ha l'accento tipico di coloro che amano le proprie origini.
LA TESTIMONIANZA DEL BAMBINO NEL SONDERKOMANDO
"Il 13 aprile 1944, la mia famiglia ed io fummo deportati ad Auschwitz-Birkenau - continua a raccontare - . Ci caricarono sui vagoni insieme ad altri uomini, donne e bambini. Per i nostri bisogni c'era un piccolo contenitori in fondo, ma il vagone era così pieno che eravamo costretti a fare i nostri bisogni sul posto in cui ci trovavamo; il fetore era insopportabile. Io e mia sorella eravamo attaccati alla mamma, il nonno era accasciato a terra. Non avevamo né cibo né acqua, alcuni stavano a terra e altri morivano, tanti si sedevano sui cadaveri.
Impiegammo diversi giorni per arrivare, alcuni (gli ebrei da Salonicco) addirittura otto giorni. Una volta arrivati, fummo accolti da una grande confusione. Ci gridarono: "Alle rune! Alle rune! Tutti giù! Tutti giù!".  
Io e mia sorella Miriam, che poi divenne la cavia del dottor Mengele, fummo spinti in una direzione, mia madre trattenuta dai fucili dei soldati che le impedirono di raggiungerci. Non la vidi più e anche mio padre e mio nonno sparirono.
Solo Samuel si salvò fisicamente (www.ilnotiziariodicortina.com)
Tutti fummo marchiati con un numero sull'avambraccio sinistro, che porto ancora. Ero un bambino, avevo 7 anni, e per le mie mani affusolate venni costretto a mettere le dita nell'ano dei cadaveri per vedere se nascondevano gioielli, altri estraevano l'oro dalle bocche.
Molti bambini erano i Pipel, ufficialmente venivano usati come camerieri, in realtà subivano abusi sessuali dai Capò e venivano uccisi.
Ricordo che mi dissero di non pronunciare più ad alta voce il mio nome, ma eventualmente di dire il numero che avevo sull'avambraccio. Mi consigliarono di ripetere mentalmente il mio nome per non dimenticarlo.
Stavo attento a non sbagliare, cercavo di sopravvivere, ho imparato a usare il coltello, a rubare il cibo del compagno... e in me cresceva il rancore e l'odio che mi ha aiutato a sopravvivere. 
Il 27 gennaio 1945 Auswitz venne liberata dall'armata russa, i cancelli vennero abbattuti, due adulti mi nascosero, un soldato russo che parlava tedesco mi diede una coperta per coprirmi dal freddo, conservo ancora a casa quel panno. Mi diede anche una cosa salata da ciucciare (era un'aringa) che mi salvò la vita.
La Croce Rossa e poi la comunità ebraica si sono occupati di me e sono stato portato in America in un orfanotrofio di Miami. Ricordo che raccontai quello che mi era accaduto ai miei compagni e mi derisero. Allora spaccai in due il bastone di  una scopa e colpii i miei compagni. Fui ripreso non per il gesto verso i miei coetanei, ma per aver rotto la scopa.
Studiai follemente per diventare qualcuno poi conobbi la mia futura moglie (medico pediatrico conosciuta a Ferrara, i due hanno avuto due figlie ndr) e l'amore mi trasformò. L'esperienza di Auschwitz non è mai uscita dalla mia mente... a volte mi sembra di essere un albero senza radici spostato ora a destra, ora a sinistra".
Ha pubblicato il libro: "La barbarie civilizzata".
Feliciana Mariotti
 

© il Notiziario di Cortina

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